La Via del Corpo

LA VIA DEL CORPO

LA VIA DEL CORPO, DI ANDRÉ COGNARD

La pratica del aikido di Kobayashi Hirokazu (1929-1998), allievo del fondatore Ueshiba Morihei (1883-1969), implica un’utilizzazione del corpo che va ben oltre il semplice controllo di quest’ultimo per mezzo della volontà o dello sviluppo dei riflessi. Il fondatore Ueshiba Morihei aveva concepito le sue tecniche per analogia con i movimenti della natura, in particolare osservando l’acqua. Secondo la sua concezione, il movimento deve seguire una spirale d’energia (meguru – parola giapponese significa girare, condurre in circolo) che si esprime attorno al centro di energia vitale (seika tanden – «il punto rosso vermiglio» , il centro). Egli utilizza le forze centrifughe e centripete, e le accelerazioni che esse producono, per mettere in disequilibrio l’attaccante, associandole ad un sistema di torsione, di rotazione o d’iperestensione delle articolazioni del corpo di quest’ultimo dopo che uno spostamento appropriato ne ha permesso la presa schivandone contemporaneamente l’attacco. Egli sviluppa un’idea di armonia e di estetica universali chiaramente attinte dal cuore della cultura giapponese (shochikubaiwabisabi) e da una concezione mistica del mondo ispirata più particolarmente dalla dottrina dell’ Omotokyo, dopo che questa si era faticosamente e tardivamente evoluta verso un’ideologia pacifica. La non violenza di questo aikido risiedeva nel fatto di non opporsi fisicamente alla forza dell’attacco, ma di deviarla per condurla ad un punto in cui l’attaccante si trovava ad essere dominato da una concomitanza di competenza tecnica, rilassatezza, spirito di non resistenza e unione con l’universo. Quest’ultima nozione rinviava ad un atteggiamento della coscienza psichica che Ueshiba Morihei descrisse abbastanza evasivamente come una capacità di unirsi con la totalità universale, facoltà che egli avrebbe sviluppato per mezzo dell’allenamento e della preghiera. Per quanto riguarda la preghiera, egli recitava quotidianamente i norito, faceva delle abluzioni purificatorie ma includeva anche nella sua prassi gesti rituali tratti dalle pratiche dell’Omotokyo e dello shintoismo (misogi). Egli sviluppò due idee molto interessanti nel contesto delle arti marziali.

  • Il conflitto è creatore.
  • La sola vittoria giusta è quella che non genera vinti.

Il conflitto è creatore, il che significa che esso non riguarda solamente l’attaccante e che esiste un’alternativa al conflitto e la risoluzione senza violenza di quest’ultimo ci permette di definirla e di esprimerla. Ciò ci introduce senz’altro al concetto di compassione per l’altro, che per questo motivo non può più essere l’autore esclusivo della sua violenza. Di qui l’idea di vittoria senza vinti.

Ueshiba Morihei si riferiva a tre concetti pertinenti a piani diversi per pervenire al controllo dell’avversario :

  • Il corpo deve essere allenato e consolidato per mezzo di pratiche specifiche;
  • lo spirito deve essere aperto ad una concezione di sé e del mondo, per mezzo della pratica religiosa e di una gestualità ritualizzata, propizia allo sviluppo della compassione (influenza buddista?);
  • la coscienza deve applicarsi per far fare al corpo i movimenti giusti, cioè quelli che, ispirati dall’osservazione della natura, non sono portatori di una violenza propria all’uomo.

Ciò equivaleva a dire che se si esclude l’intenzione di agire con violenza e se non si manifesta l’opposizione in quanto tale, si evolve necessariamente verso la non violenza. D’altra parte la messa a morte rituale insita in ogni proiezione o immobilizzazione era giustificata dalla seguente argomentazione : l’avversario che viene atterrato percepisce l’inutilità della propria aggressione e rinuncia a ripeterla; manifesta tale rinuncia colpendo il tatami in segno di resa, o accettando di effettuare una caduta che ne esprime la sconfitta. È altresì evidente che, se non adottasse tale atteggiamento, l’attaccante si farebbe male da solo, poiché l’aikidoka non lascerebbe la presa, convinto che questa sia giusta perché fondata sull’intenzione di non opporsi.

L’alleanza con le forze della natura costituirebbe una prova che l’azione condotta è giusta? Si potrebbe considerare l’aikidoka inscritto in un movimento di sviluppo ontologico del mondo mentre l’avversario vi si opporrebbe inconsciamente?

Io vedo in questo una contraddizione evidente con la tematica del conflitto creatore. Il conflitto, che è l’utensile della natura per eccellenza, necessita di una avversità.

Ciò nonostante, questa dottrina sembra, ancora oggi, soddisfare la maggioranza dei praticanti e Ueshiba Morihei è celebrato nel mondo intero come un grande iniziato, pacificatore dei budo. Le sue idee sono talvolta riprese dai praticanti di altre arti marziali, e nessuno si domanda che differenza faccia imporre una vittoria pacifica, e attraverso di essa la propria verità sul mondo, piuttosto che una vittoria guerriera quale le arti marziali tradizionali concepiscono. Nessuno sembra disturbato dal fatto che la messa a morte rituale è anche una violenza morale e che imporre le proprie vedute, per quanto giuste, è una violenza primordiale poiché si tratta della negazione della verità dell’altro. Negandogli la possibilità di esprimere la sua verità, viene negato l’essere in quanto soggetto. E la negazione dell’identità è all’origine di tutte le guerre e di tutte le violenze. Non intendo dire che Ueshiba Morihei non fosse sincero nel suo modo di procedere non violento e nella sua compassione, ma piuttosto che non ha raggiunto il suo scopo per mezzo della pratica marziale. La narrazione del suo satori o piuttosto, della sua presa di coscienza, è esplicita su questo argomento. Egli ottenne l’illuminazione per mezzo della preghiera, della sua pratica di Omotokyo, e non per mezzo dell’aikido.

Kobayashi Hirokazu è cosciente di questo scostamento tra le idee ed i gesti dell’aikido. Egli dà un apporto considerevole a questa pratica, tanto dal punto di vista ideologico che dal punto di vista tecnico.

Da una parte egli concepisce che il meguri è interno, e che deve avere luogo prima del contatto fisico, il che trasforma le tecniche. L’ampiezza degli spostamenti dei piedi può diminuire, la stabilità è assicurata dalla tenuta del centro in movimento, quale che sia l’azione, poiché quest’ultima non necessita di alcuna esteriorizzazione della forza. Questa scoperta autorizza il mantenimento di una postura perfettamente diritta, e rompe con una tradizione guerresca della stabilità per mezzo dell’abbassamento del bacino e della rigidità. L’aikidoka è un uomo retto, e la sua rettitudine non è dovuta alla convinzione di detenere un’idea della giustizia, ma ad un modo di essere fondato su un’etica nuova, una fonte della quale è : « Uke soku seme, seme soku uke » (Testualmente : “colui che riceve è uguale a colui che attacca”).

I protagonisti sono uguali nella relazione conflittuale che li unisce; sono indissociabili, e la violenza è da una parte e dall’altra, i sentimenti di ragione giusta pure, e la verità che si libera dalla loro interazione appartiene al mondo. Nessuno ne è l’autore, essi ne sono insieme gli interpreti.

D’altra parte egli trasmette l’idea che la compassione debba essere espressa come il rituale guerresco. In effetti non contesta l’efficacia del rituale marziale sull’evoluzione delle coscienze, ma stima necessario che lo scopo del rituale non sia più la messa a morte simbolica, espressione di una violenza travestita, bensì un gesto d’amore suscettibile di illustrare il proposito di Ueshiba Morihei : « la vera forza del budo è l’amore ».

Esiste attorno alle arti marziali una tradizione di medicina energetica, generalmente designata dal termine kappo seppo, largamente ispirata dall’esperienza della medicina cinese, e l’aikido non fa eccezione. Takeda Sokaku, che fu uno dei maestri di Ueshiba Morihei, insegnava l’aikishintaiso, fonte principale del kihon dellaikitaiso. Kobayashi Hirokazu aggiunge un’esperienza personale di queste pratiche dovuta al suo incontro con il maestro di kappo seppo Sumida, i cui successi come terapeuta tanto dei sumotori quanto dei giocatori di baseball gli avevano conferito autorità in materia. Egli insegnò a Kobayashi Hirokazu il sapere necessario per trasformare tutte le azioni dell’aikido in tecniche salutari. Ciò fu facilitato dal fatto che il kappo seppo concepisce tutti i punti mortali come punti di guarigione, e che include la chiropratica e la pratica dei massaggi terapeutici che seguono i movimenti naturali delle unità funzionali anatomiche. Questo corrobora le idee di Kobayashi Hirokazu sul fatto che i meguri siano prima di tutto interni. Egli ne scopre l’esistenza naturale nelle catene muscolari ed articolari. D’ora innanzi i meguri seguiranno queste entità anatomiche che sono le vie dell’energia, e si esteriorizzeranno direttamente nel corpo di uke, senza essere visibili al di fuori, il che farà dire a osservatori poco accorti che questo maestro non si muove, che proietta i suoi partner senza spostarsi. Così, ogni tecnica di aikido sarà un’azione salutare per colui sul quale viene eseguita. Osservare l’organizzazione del corpo permette di scoprire un sistema la cui presa di coscienza ci indica come agire fisicamente. Le ripercussioni sui nostri comportamenti sono indubbie : il rispetto dell’integrità fisica e fisiologica dell’altro ci è possibile e non altera affatto né la potenza, né la velocità, né l’efficacia della tecnica. Al contrario, queste qualità si accrescono e l’efficacia è doppia, poiché si raggiunge l’obiettivo del benessere fisico. Kobayashi Hirokazu perviene allora ad un’altra scoperta importante. Fare è subire, e subire è fare. È una nuova tappa nella comprensione di uke soku seme. La pratica mostra infatti che il meguri è tanto più efficace quanto più l’esecutore si applica a seguire egli stesso le vie tracciate dalle tecniche dell’aikido. Per fare un nikyo, si fa a se stessi un kote gaeshi e così di tutte le tecniche. L’aikidoka comprende allora che è necessario aprirsi per permettere all’altro la propria apertura alla relazione. Kobayashi Hirokazu esprime ciò nei suoi corsi dicendo : « bisogna prima di tutto donare, donare sempre, e poi ricevere ». Ormai, la postura è coscientemente implicata nell’espressione della rettitudine morale : i polsi non devono più essere tesi in posizione difensiva come nella tecnica alla quale l’aikido si ispirava largamente, Daitoryu aikijutsu. Non c’è più guardia, né con le mani né con le armi, poiché ciascuno è cosciente che l’avversario non è di fronte a sé. Esiste un’avversità comune che conviene combattere insieme attraverso il rituale della relazione marziale il cui scopo è il benessere fisico. I gesti devono rispondere al doppio obbligo seguente : arrendersi alla necessità marziale, in altre parole rispettare lo spirito del budo (testualmente « via delle armi ») e nel contempo conformarsi alle leggi dell’energia interna, delle quali l’organizzazione anatomica è il riflesso. La stretta osservanza di ciò è garante del rispetto dell’integrità dell’altro, tanto fisica che morale. Kobayashi Hirokazu dice anche : « se potete eseguire una tecnica senza essere diritti, abbandonatela. Se pervenite ai vostri fini utilizzando la forza, questo non è interessante, lasciate perdere ! ». La postura ha non soltanto una funzione estetica, ma etica, la non-forza implica la rettitudine del corpo.

La ricerca della doppia vittoria, quella che non fa vincitori così come l’aveva sentita Ueshiba Morihei, è stata ottenuta, ma Kobayashi Hirokazu vuole ancora esplorare una direzione che evocava l’insegnamento del suo maestro « Denko sekai no ijo » : « Al di sopra del mondo della luce ». In effetti, nel contesto del taijutsu, la relazione può essere conforme alle regole etiche e avere come scopo la doppia vittoria, Kobayashi Hirokazu lo ha d’altra parte dimostrato sviluppando ex-novo e considerevolmente il kaeshi-waza. Ma di fronte ad attaccanti più numerosi e soprattutto armati, appaiono altre difficoltà. La velocità delle spade e la linearità delle direzioni d’attacco offrono poco destro al meguri interno. Le regole classiche concernenti la definizione dello spazio attorno ad una linea (detta kensen, cioè linea delle spade) che passa per i centri dei protagonisti e le punte delle spade non permettono altro che una successione di azioni di difesa mentre gli attacchi sono simultanei. Ueshiba Morihei aveva manifestamente risolto questo problema tecnico senza trasmettere in realtà una strategia esplicita al di fuori di considerazioni di ordine mistico legate allo stato d’animo che esprimeva dicendo : « sono al centro dell’universo ». Kobayashi Hirokazu trova la sua risposta in un’espressione che aveva sentito spesso in bocca al suo maestro : « mushi suru », « ignorare ». È l’ultima scoperta importante che permetterà di risolvere i problemi posti da questa situazione di attacco multiplo e di obbligo etico. Il kensen è multiplo come le cause della violenza sono sempre molteplici. Tutti i kensensono circolari e si riuniscono in una linea che passa per il centro dell’attaccato. Lo spazio di interazione è un insieme di linee sinusoidali che si intersecano, creando delle semi-ellissi. L’attaccato conosce, e lui solo, lo spazio che determinano, poiché esse nascono dal suo centro. Non è più nello spazio del corpo, ma nello spazio della relazione che si compie il meguri. Oltre a questa circolarità dello spazio, e alle rivoluzioni ellissoidali che i movimenti di schivata provocano attorno ai grandi assi, è necessario un altro strumento per padroneggiare tale situazione. Gli occhi non devono più intervenire nell’azione. Lo sguardo è lontano, verso uno spazio molto più vasto dello spazio conflittuale al quale si riferiscono gli attaccanti, più vasto anche dello spazio di interazione nel quale l’attaccato inscrive l’azione. Visualizza uno spazio senza limite che include la totalità della relazione, e crea un’esteriorità a quest’ultima. Non ritorna all’interno dello spazio relazionale se non quando l’azione è finita.

Si elimina così il vecchio riflesso che consiste nel difendere lo spazio in cui ci si trova, e di colpo si prende coscienza della confusione abituale tra lo spazio esterno e lo spazio interno del corpo all’origine di questo riflesso. Si percepisce così che lo spazio conflittuale è un frammento dello spazio in generale. Tutti i conflitti sono innanzitutto dei conflitti di territorio, terrestre, emozionale o concettuale; essi esprimono un’unica cosa, la disarmonia fra lo spirito e « ciò che si vive ».

La mobilità fisica che si guadagna nell’affrancare l’azione dallo sguardo è tale che si può utilizzare il corpo in più direzioni diverse allo stesso tempo. Il gesto diviene multiplo come la coscienza, la cui unità è prodotta dalla conoscenza che ha della sua divisione. Afferriamo, attraverso questa presa di coscienza della nostra libertà d’azione, che le regole abituali concernenti la spaziotemporalità sono legate ad un quadro di riferimento preciso dal quale si può uscire. Lo sguardo, liberato dal vincolo di dover condurre l’atto, vede la coscienza, poiché allontanandosi si interiorizza. Comprendiamo infine che esiste uno spazio interiore nel quale la coscienza non soffre di alcuna divisione, precisamente perché detta coscienza non ha più bisogno di rappresentarsi, dunque di localizzarsi, per essere. L’essere è inattaccabile, poiché il suo spazio è un antispazio, come il concetto di identità è un anticoncetto. Non ricopre alcuna realtà oggettivabile, ma è fondatore di realtà.

La mobilità che si guadagna è dovuta anche al fatto che l’azione è liberata dallo sguardo. L’individuo si inscrive con il proprio atto, il cui carattere etico è garantito dal corpo cosciente, in uno spazio relazionale universale. La coscienza nasce sempre da una relazione, ed è solamente nel contesto di una dialettica tra il corpo e l’attività psichica che si può ottenere l’unità conferente l’identità, identità non più come oggetto filosofico, ma come realtà tangibile, al di fuori di qualsiasi rappresentazione. È l’identità cosciente, questa convinzione profonda di essere, al di fuori di qualsiasi discussione o di qualsiasi affermazione su se stessi, che permette l’interazione con la totalità e dona così accesso alla conoscenza.

L’identità non esiste se non all’interno della relazione e qualsiasi relazione che abbia come obbiettivo quello di trovarsi, cioè di manifestare la propria identità, è conflittuale. L’integrazione del conflitto fa del rapporto corpo-coscienza un sistema dialettico che elimina la dualità interna e dà accesso ad un mondo relazionale nuovo. La nostra pratica ci dimostra che questa integrazione è possibile quando, in situazione conflittuale, la coscienza è capace di dividersi tra due tendenze : interiorizzarsi, cioè non esteriorizzare l’identità; e vedere altrove, cioè far emergere coscientemente in sé dunque nella relazione conflittuale, l’altrove, l’altro, un elemento di triangolazione. Si tratta infatti di equilibrare la coscienza tra identità ed alterità, come si equilibra il corpo tra il centro (hara o seika tanden) e lo sguardo. In questo equilibrio l’identità dell’uno entra in relazione con l’identità dell’altro. Qualsiasi relazione di questo tipo è dunque fondata obbligatoriamente sul riconoscimento della differenza. Lo spazio conflittuale diventa uno spazio relazionale la cui costituente fondamentale è etica e il cui prodotto fondamentale è etico.

Kobayashi Hirokazu è morto nell’agosto del 1998. Egli ha dispensato un insegnamento conforme alla tradizione giapponese per quanto concerne il metodo. Ha mostrato spesso, spiegato raramente e utilizzato più spesso la metafora che il discorso razionale. L’insegnamento passava attraverso il silenzio, il corpo e la sensazione. Tuttavia precisava verbalmente, e molto di frequente alcuni punti concernenti l’etica dell’aikido :

  • l’aikido non appartiene a nessuno, il fondatore l’ha voluto universale e non esclusivamente giapponese;
  • l’aikido non è in alcun caso uno sport, non deve allontanarsi dal budo;
  • l’aikido non è legato ad alcuna religione, non allo shintoismo piuttosto che al buddismo o all’Omotokyo, e non può in alcun caso essere una religione;
  • in aikido non ci si difende, non si prende una guardia, non si guarda l’attacco. Non si domina, non ci si sottomette e non si fanno compromessi;
  • l’unica strategia è che il cuore dell’aggressore cambi quando ci tocca : « aite no kokoro kawaru ». Affinché questo avvenga, bisogna donare prima di ricevere;
  • l’aikidoka deve concentrarsi innanzitutto su due punti : non ferire mai l’attaccante, pensare che colui che attacca sta facendo una richiesta di aiuto, una domanda d’amore, che utilizza l’ultimo mezzo possibile, quando il conflitto ha tagliato qualsiasi relazione, per ricreare un legame;
  • l’aikidoka deve ringraziare per l’attacco e compiere il gesto che fa bene ad entrambi.

Egli illustrò quest’ultimo punto attraverso le consegne di meditazione che diede agli aikidoka : « Restate concentrati sull’idea di ringraziare senza limiti, quali che siano i pensieri e gli avvenimenti ai quali tali pensieri si rapportano. Dite arigatai (testualmente: “vi ringrazio”) fino a sentire il vostro corpo pieno di energia, poi yoku naru (“che ciò diventi il bene!”, “che tutto migliori!”) senza limitare questo augurio in nessuna maniera ».

Aveva l’abitudine di dire : « Per colui che applica questa regola, Dekinai koto wa nashi » (“niente è impossibile”).

Ha anche detto molto chiaramente che questo insegnamento non era derivato da alcuna dottrina, che non si riferiva ad alcun antico principio. Veniva naturalmente dal corpo di colui che praticava mettendo nella pratica la propria anima « Tamashi wo irete kudasai » (“metteteci la vostra anima”).

André Cognard